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Leggende e curiosità

Fin dalla notte dei tempi, sono molte le leggende che si sono tramandate tra gli abitanti della Val Masino. La più famosa è sicuramente quella del Gigiat, che molti conoscono di nome ma che spesso non è altrettanto conosciuta come storia. Ve la raccontiamo di seguito, assieme ad altre curiose leggende legate alla nostra valle.

La leggenda del Gigiat

Una delle più note leggende della Val Masino è sicuramente la leggenda del Gigiat, ambientata sulle montagne della Val Masino, in particolare sulle montagne che fanno da cornice a San Martino, l’ultima frazione della valle.
Questo ambiente è l’habitat ideale per un animale come questo, dalle sembianze umane ma ricoperto da un folto e lungo pelo, con delle zampe al posto delle gambe e un bel paio di corna in testa, da far paura a qualsiasi essere vivente si aggiri per le montagne della Val Masino. Le sue zampe gli permettono di spostarsi in men che non si dica da una valle all’altra, dalla Valle dei Bagni a quella di Preda Rossa passando per il Cameraccio, Valle del Ferro, del Torrone, facendo la guardia all’intero arco alpino. Proprio per queste sue doti atletiche sono poche le persone che possono dire di averlo visto. I gestori dei rifugi raccontano di questo animale come un incrocio fra un caprone ed uno stambecco, dal pelo lunghissimo e dalle dimensioni gigantesche, con le zampe anteriori dotate di enormi unghie, molto simili a braccia umane, mentre su quelle posteriori ci sono dei grandi zoccoli; tutto il corpo è ricoperto da un folto e lunghissimo pelo, che emana un forte odore di capra selvatica. Il Gigiat è conosciuto da tutti per la sua straordinaria agilità, soprattutto in ambiente di alta montagna dove si muove con una velocità impressionante, passando da una valle all’altra senza mai fermarsi e riposare.
Viene descritto come il custode della Valle e delle sue montagne. Uno degli episodi più famosi risale all’inizio del Novecento, quando l’allora gestore del rifugio Gianetti, Giacomo Fiorelli, voleva nonostante le condizioni meteo avverse, conquistare la vetta del Pizzo Badile, a piedi nudi. Si trovava a pochi metri dalla vetta quando venne tradito dal ghiaccio e scivolò per parecchi metri prima di riuscire ad aggrapparsi ad uno spuntone di roccia. Le sue speranze di sopravvivenza erano ridotte al minimo, ma ecco che venne in suo soccorso il Gigiat, che gli si avvicinò e lo fece aggrappare al suo dorso e lo portò al sicuro. Neanche il tempo di accorgersi di cosa fosse successo che l’animale che l’aveva appena salvato era già sparito nella nebbia.
Da questo episodio poi ne susseguirono numerosi altri, sempre con il Gigiat come protagonista.
Il Gigiat è un animale buono, protettore delle sue montagne, ma attenzione: il Gigiat rispetta le persone che portano rispetto a lui e alla montagna mentre punisce chi è malvagio e non rispetta la montagna in tutte le sue forme.
C’è anche una versione più scettica della leggenda del Gigiat. Si narra che la leggenda sia nata da una burla di due guide alpine nei confronti di un ricco conte Morbegnese che andava vantandosi di possedere tutto ciò di valore che la Valtellina potesse offrire. I due abitanti gli fecero notare che nella sua collezione mancava un animale spaventoso, enorme, misto fra capra e stambecco, con caratteristiche senza equali, unico nella sua specie. Il Conte non voleva credere che questo animale non potesse far parte della sua collezione ed ordinò alle due guide di San Martino, sotto una cospicua ricompensa in denaro, di fare in modo di catturare l’animale e consegnarlo nelle sue mani. Il ricco morbegnese diede loro la ricompensa ancor prima di aver catturato l’animale; come ben intuibile, appena ricevettero la ricompensa i due sparirono ed il conte non vide mai ciò che gli era stato promesso.
I Morbegnesi da allora definirono i Valòc (gli abitanti della Valle), come degli inaffidabili, perché non consegnarono mai al conte le prove dell’esistenza di questo fantastico animale. Proprio per togliersi quest’etichetta che gli era stata attribuita, nel 1956 un gruppo di Guide Alpine della Val Masino decise di portare il Gigiat in sfilata al famoso Carnevale di Morbegno. Si trattava di un asino ricoperto di peli, condotto da un cacciatore con il fucile di legno e da un suo aiutante, fra le risate generali.
Oltre a questi episodi, sono state scritte anche poesie e canzoni dedicate al Gigiat, che resteranno nella memoria di tutti, per sempre.

La Màta Selvàdega

La leggenda della Màta Selvàdega (“La Donna Selvatica”), prende luogo lungo il fiume che dalla Val Masino scende fino a Masino, il fiume Masino, per l’appunto.
La leggenda della donna selvatica racconta di una donna terribile, dall’aspetto cupo ed intimidatorio soprattutto verso i bambini dispettosi e vivaci, che viveva tutta sola lungo il letto del fiume. Il rifugio della donna, dove amava trascorrere buona parte della giornata per poi uscire solo nel tardo pomeriggio, sul calar della luce, si trovava sotto un enorme masso, posto nel fiume, chiamato “Il Masso dei Falsari”.
Era una donna molto solitaria (da qui il soprannome “Selvàdega”), che non amava di certo la compagnia; incuteva terrore solo a sentirla nominare ed era la scusa usata dai genitori per far rientrare i bambini prima dell’imbrunire. Le raccomandazioni svariavano da “ Stai attento a non tornare dopo il calar del sole, perché a quell’ora ci sarà la Màta Selvàdega in giro e non avrai più scampo”, e ancora “rientra prima del tramonto, altrimenti per te non ci sarà più nulla da fare, quando la Màta Selvàdega verrà a sapere che sei ancora in giro”, a raccomandazioni ancora più fantasiose.
Si narra che la donna selvatica si divertisse a catturare i bambini che trovava lungo le vie del paese, per poi farli cuocere tutti assieme in un unico pentolone, nel retro del suo rifugio. Tutti i bambini temevano questa cupa donna, tranne uno: un giovanotto del paese che un bel giorno decise di sfidarla. Appena il sole tramontò, il giovane ragazzo, armato di coraggio, si caricò sulle spalle una brenta di vino e si avviò verso il rifugio della Màta. Dopo aver camminato per parecchio tempo, da solo, lungo il letto del fiume, il giovane giunse in prossimità della casa della donna, la quale si accorse subito della presenza del giovanotto, lo rimproverò e lo invitò ad andarsene, prima che fosse troppo tardi. Il ragazzo non ne volle sapere e con grande coraggio decise di offrire alla donna, che nel mentre si era sposta sull’uscio della sua casa, un calice di vino che aveva portato con sé nella brenta. La donna con un lungo balzo si scagliò in direzione del giovanotto che, impietrito, non ebbe modo di sposarsi; per sua fortuna però, la donna non aveva mirato il giovane bensì la branda di vino che portava con sé! Ci si infilò dentro e cominciò a bersi il vino senza più preoccuparsi del perché quel giovane fosse arrivato fino al suo rifugio. Il giovane, ancora spaventato dal balzo della Màta, non perse nemmeno un attimo e sferrò un forte calcio che fece finire la brenta con all’interno la Màta nel torrente Masino. Così la donna, assieme alla brenta, sparì per sempre inghiottita dalle cascate del fiume Masino.

La leggenda della Povera e del Poveret

Alle porte della Val Masino, la prima frazione che troviamo dopo aver sorpassato il Ponte di Cornolo si chiama Sant’Antonio, ed è qui che prende forma la “Leggenda della Povera e del Poveret”. Questa piccola frazione, ora abitata da poche persone nel periodo estivo, una volta era invece un vero e proprio borgo con anche una sua Chiesetta a ridosso del fiume Masino, ormai ridotta in rovine.
La leggenda della povera e del poveret narra di una povera donna che all’epoca viveva in condizioni pietose, con a carico diversi figli in tenera età. La donna perse il marito e poco dopo anche il lavoro, sua unica fonte di sopravvivenza! Dopo parecchi giorni, in cui la famiglia sopravviveva grazie a delle scorte preparate in precedenza dalla donna e da suo marito, le stesse iniziarono a scarseggiare e la famiglia era destinata a morire di fame in poco tempo. Le forze della donna e dei suoi figli erano ormai ridotte all’osso, quando un mattino bussò alla loro porta un mendicante (il poveret). La donna con le poche forze che le restavano, andò ad aprire e si trovò di fronte il mendicante che chiedeva ristoro e del cibo; rammaricata dal non poter dare nulla a quell’uomo per sfamarlo, decise di accoglierlo in casa. Una volta entrato in casa, il mendicante si rese conto della situazione straziante in cui era ridotta la famiglia. I figli e la madre erano sdraiati attorno ad un piccolo focolare che andava spegnendosi e chiese allora alla donna di recuperare della legna per far bollire dell’acqua. La donna obbedì, ribadendo il fatto che c’erano legna ed acqua in abbondanza, ma non c’era nulla in casa da far cuocere. Il mendicante suggerì di mettere dei sassi nel pentolone non appena l’acqua iniziasse a bollire. La donna, nonostante un po’ di esitazione, obbedì agli ordini del poveret, essendo l’ultima speranza rimastagli. Uscì di casa e raccolse delle grosse pietre ed appena l’acqua iniziò a bollire, ci infilò i sassi e aspettò che cuocessero. Dopo qualche ora con un mestolo cercò i sassi all’interno del pentolone, ma i sassi non c’erano più! Al loro posto c’erano delle grosse patate! La donna, quasi colta da un malore per la forte emozione, si girò verso il mendicante per ringraziarlo, ma questo era già sparito. Allora rivolgendosi ai figli esclamò: “E’ Sant’Antonio, è lui che ha fatto un miracolo..”.

I corni bruciati

La Valle di Preda Rossa è una celebre valle della Val Masino, conosciuta al mondo per la sua incantevole bellezza e per la pace che si può trovare in queste montagne. Predarossa si trova ad un’altezza di circa di 2000 mt ed è il confine per la vicina Valmalenco, si sviluppa ai piedi del Disgrazia ed è circondata dall’Alpe Scermendone (dalla quale si può godere di una splendida vista su tutta la Valtellina) e dai Corni Bruciati, delle enormi torri di roccia rossa. Proprio quest’ultimi nascono da una delle più antiche leggende della Val Masino, la leggenda dei Corni Bruciati.
Un tempo i Corni Bruciati erano splendide pinete e pascoli rigogliosi che si estendevano dalle valli di Preda Rossa a quelle della Val Terzana, ora non più.
La leggenda narra di un mendicante che raggiunse l’Alpe di Scermendone in cerca di riparo e cibo per la notte e per i giorni a seguire. L’Alpe di Scermendone in quei giorni era priva di abitanti se non di due pastori, ai quali il povero mendicante si rivolse in cerca di riparo. Questi due pastori erano uno l’opposto dell’altro: uno dal canto suo, molto gentile ed accogliente, che anche se aveva poco per sé stesso quel poco era pronto a condividerlo con chiunque; l’altro invece era famoso per il suo animo malvagio e avido. Quando il mendicante bussò alla porta del secondo pastore, quello avido, questo lo schernì e lo scacciò dalla sua proprietà senza offrirgli nulla per il superamento della notte. Il povero mendicante trovò quindi ristoro verso l’altro pastore, che l’accolse e preparò subito per lui una minestra con quel poco che gli era rimasto. Il mattino seguente il mendicante ringraziò il pastore che lo accolse a casa sua, ordinandogli però di lasciare al più presto la valle di Predarossa e di scappare passando per Scermendone, fino a raggiungere i paese sottostanti. Il mendicante suggerì inoltre al pastore di scappare senza mai voltarsi, qualsiasi cosa succedesse. Dopo aver discusso un po’ con il mendicante, il pastore vide che stava succedendo qualcosa di strano: il mendicante diventava via via più luminoso e sempre più maestoso; capì che si trattava del Signore e decise di obbedire a quello che gli era stato suggerito poco prima, senza indugio.
Lasciata Predarossa, attraversò il ponte sulla via dell’Alpe di Scermendone e cominciò a sentire un forte calore, delle grida e dei rumori di piante e massi che cadevano alle sue spalle, ma proseguì dritto, senza mai voltarsi. Questi rumori lo accompagnarono per tutto il tragitto fino a Scermendone, dove il buon pastore non riuscì più a resistere, e, prima di imboccare il sentiero che conduce a Buglio in Monte, decise di voltarsi per vedere cosa stesse succedendo alle sue spalle.
Appena si voltò, si trovò di fronte ad uno spettacolo apocalittico, la montagna con i suoi pascoli rigogliosi e le sue piante in fiore si stava sgretolando e veniva pian piano inghiottita da un enorme rogo che divorava tutto ciò che incontrava sulla propria strada; quei bei pascoli che avevano cresciuto il buon pastore non c’erano più, tutto in fiamme. Questa visione la potè vedere per poco tempo, poiché venne accecato da alcune scintille che lo aveva raggiunto. Pregò quindi il Signore di perdonarlo per aver disobbedito alla Sua richiesta e di fargli riconquistare la vista prima che fosse troppo tardi. Il Signore, ricordandosi della bontà che il pastore mostrò nei suoi confronti la notte prima, decise di ascoltarlo e gli ordinò di batter con il bastone che aveva in mano per terra più forte che potesse e di bagnare gli occhi all’acqua della sorgente che dà lì sarebbe scaturita. Il pastore fece come il Signore gli suggerì e riottenne completamente la vista. Riprese quindi il suo cammino verso Buglio in Monte dove raccontò i fatti tremendi successi, di cui era testimone.
Da allora il colore delle rocce di Preda rossa ricorda agli uomini la punizione divina per la loro malvagità e ancora oggi, all’Alpe Schermendone esiste una sorgente, chiamata “Acqua dei Occ.” (Acqua degli occhi), dove la gente si reca a prendere l’acqua per curare problemi legati alla vista.

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Quando l'inverno si avvicina, la pernice bianca compie la muta che rende il suo aspetto candido e le permette di mimetizzarsi negli ambienti innevati. Questo è solo uno degli adattamenti degli animali agli ambienti alpini.
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